Categoria: Consigli per gli ascolti

Leonard Cohen  Popular Problems  2014

Leonard Cohen Popular Problems 2014

LEONARD COHEN POPULAR PROBLEMS 2014

di Sante Fernando Tacca

Popular Problems è il tredicesimo album da studio di Leonard Cohen, pubblicato nel 2014, due giorni dopo aver compiuto ottanta anni.

La copertina ce lo mostra appoggiato ad un bastone da passeggio, in quella che è diventata nell’ultimo periodo della sua vita la sua divisa d’ordinanza, borsalino giacca e cravatta, come nell’album del 2012 Old Ideas.

ALBUM CAPOLAVORO

Album capolavoro nella sua essenzialità e coerenza formale, composto di nove brani inediti cofirmati quasi per intero con Patrick Leonard, compositore, tastierista e produttore statunitense che ha curato anche l’arrangiamento musicale.

Retro
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ARRANGIAMENTO MINIMALE CON VARI STILI.

L’arrangiamento dell’album pur essendo minimale è raffinato ed efficace, fatto di suoni ibridi, a metà tra l’analogico e il sintetico, con percussioni e batteria appena accennata e una spruzzata di organo hammond, chitarra slide, violino e pianoforte.

A dominare la scena è la voce cavernosa e catramosa di Leonard, che ricorda un po’ quella di Tom Waits, con i cori femminili a far da contrasto angelico alle melodie da lui talora appena accennate.

Gli stili dei vari brani vanno dal blues al gospel, da coloriture country a venature soul, dal r&b al folk.

IL MONDO POETICO DI COHEN

All’album il poeta e cantautore canadese affida le sue riflessioni disincantate sugli affanni e i problemi che la vita ci pone davanti tutti i giorni, sui “popular problems” di cui è intessuta la vita stessa.

Sono i temi a lui cari dell’amore, della perdita e della solitudine, del destino, del dolore e della violenza, della ricerca perenne dell’assoluto e del senso della vita.

L’autore si pone molte domande e ha pochissime risposte.

MUSICA E TESTO POETICO CHE CATTURANO L’ASCOLTATORE.

La musica dell’album è affascinante nella sua sobrietà. Le melodie sono cullanti, ipnotiche, solo abbozzate e declamate dalla voce profonda del cantautore, che comunica soprattutto emozioni.

I cori femminili nel riprendere e ripetere il refrain assieme a lui si incaricano di dar loro una forma levigata e suadente.

I testi poetici dell’autore di Suzanne e di Halleluja, di questo ebreo errante e intelletuale zen, sono sempre ispirati e profondi.

Musica e testo si integrano in maniera efficace e potente. Le voci femminili sono quelle di Charlean Carmon, Dana Glover e Donna Delory. Al violino Alexandru Bublitchi, alla chitarra James Harrah, al basso Joe Ayoub, alle percussioni e batteria Brian MacLeod.

CD
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I BRANI

SLOW

L’album si apre con Slow, dove su un basso ostinato Cohen ci espone le sue riflessione sul ritmo dell’universo, sul trascorrere del tempo e sulla caducità della vita. Un elogio della lentezza che il cantautore dice di aver sempre sentito nelle vene. “Non è perché sono vecchio, non è per la vita che ho fatto, sono sempre stato lento, la lentezza è nel mio sangue”.

Un elogio della lentezza giocato anche ironicamente su doppi sensi erotici, oltre che filosofici. “Sto rallentando la canzone, non sono mai stato veloce, tu vuoi arrivarci presto, io voglio arrivarci per ultimo”.

ALMOST LIKE THE BLUES

Segue Almost Like The Blues , un blues cupo che descrive guerre e genocidi, storie di violenze, una litania degli orrori. Mali del mondo che il suo sguardo non riesce a reggere e verso cui si sente impotente “Ho visto gente morire di fame, si uccideva, si stuprava. I loro villaggi erano in fiamme, tentavano di fuggire via. Non riuscivo a sostenere i loro sguardi, fissavo la punta delle mie scarpe… era tragico, era quasi come il blues”.

E allo scetticismo dei sapienti contrappone la semplicità dei peccatori “Non c’è alcun Dio nei cieli, e non ci sono inferi sotto noi, tanto dice il grande professore di tutto quel che c’è da sapere, ma ho ricevuto l’invito che un peccatore non può rifiutare, ed è quasi come la salvezza, è quasi come il blues”.

SAMSON IN NEW ORLEANS

Il terzo brano Samson In New Orleans è un inno straziante per il dolore e la desolazione provocate dall’uragano Katrina sulla città di New Orleans nel 2005, patria del jazz a lui tanto cara. L’introduzione è affidata a semplici accordi di organo elettronico. Le atmosfere si fanno allusive e metaforiche con il personaggio biblico che vuole abbattere le colonne del tempio calato nella realtà tragica post-inondazione. “Dicesti come può accadere, dicesti come può essere, non ci sono più catene in paradiso, gli uragani impazzano liberi… E noi che invocavamo pietà dal fondo della fossa, la nostra preghiera era forse così dannatamente indegna che il Figlio l’ha respinta? Riunite allora gli assassini, prendete chiunque in città, portatemi tra quei pilastri, lasciate che abbatta questo tempio”.

Ad aumentare il pathos, al centro e alla fine del brano, i cori angelici e l’intervento struggente del violino che intona un canto commovente e consolatorio.

A STREET

In A Street ricompare la desolazione e la consapevolezza che niente sarà più come prima all’indomani dell’attentato dell’11 settembre. È anche l’estremo saluto ad una persona amata. “Ho pianto per te stamani e piangerò per te di nuovo, ma non decido io per il dolore…”.

Semplicemente incantevole il refrain finale dove assieme alla sua voce roca si uniscono i cori femminili di Charlean Carmon e Donna Delory a chiosare “The party’s over, But I’ve landed on my feet, I’ll be standing on this corner, Where there used to be a street…” “La festa è finita, ma sono caduto in piedi, e me ne sto qui in quest’angolo, dove una volta c’era una strada”.

DID I EVER LOVE YOU

In Did I Ever Love You, su un intro di pianoforte acustico molto suggestivo, Leonard intona il suo monologo interiore sui tormenti e le lacerazioni dell’amore, fatto di sole domande a cui non sa dare risposte.

C’è qui tutto lo stordimento e il disorientamento verso quegli amori indefiniti e precari, fatti di disillusioni e rimpianti. “Ti ho forse mai amata, ho forse mai avuto bisogno di te, ti ho forse mai fatto la guerra, l’ho forse mai voluto?”. E i cori femminili che ripetono le domande senza risposta su un veloce e inatteso ritmo country-western. Dopo l’intervento anche qui del violino che tutto avvolge e ricompone riappare il monologo di Leonard ad intonare “Ti ho forse mai amata, ma importa poi davvero, ti ho forse mai fatto la guerra, non devi mica rispondermi…”.

MY OH MY

Anche il brano successivo My Oh My tratta il tema dei rimpianti e degli amori precari, dell’amarezza per qualcosa che non c’è più. Dopo l’apertura di una chitarra slide che richiama le sonorità del suo celebre conterraneo Neil Young, con un ritmo r&b sintetico e venature soul, la voce profonda del cantautore intona “Non è stato difficile amarti, non ho dovuto provare, ti ho avuta per un pochino…”. Mentre tutti gli altri ragazzi gesticolano per attirare la sua attenzione, lui l’ha avuta senza sforzo e senza provare. Per un po’. Ma poi non sa spiegarsi perché quell’amore sia finito, perché lui l’abbia lasciata andare. E come in una scena enigmatica di un film carica di rimpianti le dice “Ti ho accompagnato alla stazione , non ti ho mai chiesto perché…”.

NEVERMIND

Nevermind è dedicata alle vittime innocenti di tutte le guerre, affinché non vengano mai dimenticate.

Si intravede qui quella che forse le riassume tutte, l’eterno conflitto israelo-palestinese, allorché il canto arabeggiante di una voce femminile sembra intonare “Salaam” “La pace sia con voi”.

Il ritmo è pulsante con suoni sintetici di cassa elettronica e percussioni avvolgenti mentre la voce di Cohen e delle coriste si alternano a vicenda. “La guerra è persa, il trattato siglato, non mi hanno preso, ho passato il confine, non mi hanno preso, ma molti ci hanno provato. Vivo tra di voi ben mimetizzato, ho dovuto lasciarmi la vita alle spalle, ho scavato fosse che non troverete mai. La storia si racconta con fatti e menzogne, avevo un nome. Ma non importa, Non importa…”.

Fino appunto all’emergere della sinuosa melodia intonata dalla bellissima voce di Donna Delory, corista storica di Madonna.

BORN IN CHAINS

Semplici accordi di organo elettronico introducono la successiva e bellissima Born In Chains, dove le radici ebraiche dell’autore riemergono tutte in questo vero e proprio gospel laico. Meditazione potente e profonda e ricerca perenne sul senso della vita. Leonard rievoca le acque del Mar Rosso e invoca la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto per abbracciare “la Parola delle Parole e la Misura di tutte le Misure”.

Bellissimo il dialogo tra la sua voce roca e le voci angeliche della coriste in una melodia che sa di liturgico e di sacro. “Parola delle Parole e Misura di tutte le Misure, Benedetto sia il Nome, il Nome sia Benedetto. Scritto nel mio cuore in Lettere di fuoco. È tutto quel che so. Il resto non riesco a leggere…”

Il brano raggiunge vette altissime. La chiusura è incantevole con la dissolvenza di pianoforte, organo elettronico e cori femminili.

YOU GOT ME SINGING

You Got Me Singing è la degna conclusione di un album magnifico. Ballata folk senza tempo segnata dall’accompagnamento della chitarra acustica e del violino klezmer, con l’andamento cullante della melodia e la chiamata e risposta tra la voce di Leonard e la voce di Dana Glover.

Ritorna il tema a lui caro della condizione e della sofferenza umana contrapposta al divino, che laicamente può trovare una sua salvezza nell’esistenza stessa, nella parola e nei testi poetici, nella Musica stessa intesa come vita.

Cohen come il Re Davide della sua canzone forse più famosa, che scelse il peccato con Betsabea, ci canta la sua prigionia, le catene che lo tengono legato al suo passato.

E nonostante tutto il dolore e le desolazioni del mondo l’autore continua a sentire una spinta insopprimibile a cantare la sua canzone laica e il suo inno di Halleluja alla vita. “Mi hai fatto cantare come un galeotto in prigione, mi hai fatto sperare che il nostro piccolo amore duri…Mi hai fatto cantare anche se il mondo non c’è più, mi hai fatto pensare che mi piacerebbe andare avanti. Mi hai fatto cantare anche se tutto è andato storto, mi hai fatto cantare quel canto di Halleluja”.

Grazie Leonard. Trentase minuti di pura bellezza. E tu, se mi stai leggendo, prova ad ascoltare lentamente” quest’album. Sarà un’esperienza emozionante e lo riascolterai sicuramente tante altre volte.

Spotify: Album: Popular Problems

https://open.spotify.com/album/1WkGbKUjhOMru7uYl25jJb?si=rt6MpjphSqmenvnRrRZniA

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Franz Schubert Improvvisi

Franz Schubert Improvvisi

FRANZ SCHUBERT IMPROVVISI Op.90 e Op.142

Retro
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Franz Schubert (1797-1828)

Franz Schubert
Franz Schubert

di Sante Fernando Tacca

GIOIELLI MUSICALI

Gli Improvvisi Op.90 e Op.142 di Schubert sono gioielli musicali di rara bellezza.

Sono uno dei capolavori della produzione pianistica romantica. Vi propongo l’interpretazione di Alfred Brendel, uno dei dei maggiori interpreti Schubertiani, famoso per aver eseguito anche tutti i concerti per pianoforte e orchestra e tutte le sonate di Mozart e Beethoven.

Le registrazioni degli Improvvisi per Philips risalenti agli anni 1972-74 sono un riferimento assoluto nella discografia schubertiana.

Sia l’Op. 90 che l’Op.142 sono un ciclo composto da 4 composizioni brevi, in tonalità vicine, indipendenti tra loro e compiute in sé. Schumann ritenne i 4 Improvvisi dell’Op.142 i movimenti di una sonata, ma in realtà la critica musicale successivamente ha confermato trattarsi di brani indipendenti.

L’INTERPRETAZIONE DI BRENDEL

L’esecuzione di questi capolavori, nell’interpretazione di Brendel, suscita un coinvolgimento emotivo intenso da parte dell’ascoltatore.

Soprattutto nei momenti in cui il compositore sembra volersi confessare per comunicare le proprie aspirazioni, i desideri inappagati. O là dove sembra descrivere la nostalgia di un’età innocente che non tornerà. O ancora quando, dopo tumulti e passaggi drammatici, fa emergere dal nulla melodie incantevoli che, come preghiere di infinita dolcezza, sembra rivolgere al cielo.

CREATORE DI MELODIE CELESTIALI

Sono i momenti in cui l’arte di Schubert eccelle in quella che rimane la sua cifra stilistica per eccellenza: la creazione di melodie celestiali che commuovono nel profondo.

Sono le grandi melodie che ritroviamo anche nei Lieder, nei Landler, nei Valzer, ma che qui sono condensate in queste miniature pianistiche libere, quali sono per l’appunto gli Improvvisi.

POETA ROMANTICO

Shubert scrisse gli Improvvisi Op.90 e Op.142 nel 1827, un anno prima che la sua giovane vita si spegnesse all’età di soli 31 anni. Compose i primi 4 in estate e i restanti 4 in autunno.

Contemporaneo dei grandi classici e poco più giovane di Beethoven, egli è stato un poeta del romanticismo pianistico. Dopo di lui verranno Mendelssohn, Schuman, Berlioz, Chopin, Liszt.

Mendelssohn, qualche anno dopo, trarrà ispirazione da questi Improvvisi per le Romanze senza parole e Chopin per i Preludi e gli Studi.

Schubertiade
Schubertiade

SCHUBERTIADI

Il compositore viennese, autore tra l’altro dell’Incompiuta (Sinf. n.9 in Si min) e della Grande (Sinf. n.10 in Do magg) non conobbe il successo come Sinfonista. L’autore dei Lieder nella sua breve vita non saprà mai il successo immortale che le sue opere avranno dopo la sua morte. Figlio di un maestro e maestro egli stesso per pochi anni, ebbe solo occasionali contatti con la società aristocratica viennese.

Era ammirato e apprezzato soprattuto da ristrette cerchie di amici appartenenti alla società piccolo borghese “Biedermeier”. Non solo amici ma ispiratori, esecutori della sua musica o ascoltatori estasiati. Amici che nei momenti del bisogno lo finanziavano e sostenevano. Erano scrittori, studenti di legge, poeti, pittori come Kupelwieser, cantanti come il baritono Vogl.

E in queste serate di incontri più o meno goliardici, in queste “Schubertiadi”, lui era il protagonista assoluto che incantava tutti con la sua musica. Era il “libero artista”, il bohémien dalla vita irregolare e precaria.

ASPETTI FORMALI

Il termine Improvviso era già stato utilizzato dai boemi Tomasek e Vorisek nel 1821 per definire pezzi pianistici tripartitici A/B/A, bitematici, simili alle bagatelle beethoveniane. Pezzi cioè composti da una sezione A che viene ripetuta variata dopo una sezione mediana B, e il cui fluire musicale è affidato alla presenza di 2 Temi contrapposti in dialettica reciproca.

Mentre questi tuttavia erano semplici abbozzi e schizzi, base per ulteriori sviluppi ed elaborazioni, con Schubert finiscono col diventare vere e proprie opere brevi, compiute in sé, spontanee e perfette al loro primo apparire. I temi e le melodie sgorgano per essere godute così come sono, senza bisogno di analisi né di possibili e ulteriori sviluppi.

POETICA SCHUBERTIANA

Quella degli Improvvisi è musica raccolta, intimista, sede di confessione personale, in cui la grande melodia concentra in poche pagine l’universo poetico ed esistenziale dell’autore. Che è quello del “viandante”, del “vagare” verso una meta sede di speranza e felicità.

Lì, dove tu non sei; lì, è la felicità” recita il testo di uno dei suoi Lieder “Der Vanderer” su una lirica di Georg Philipp Schmidt von Lübeck. La felicità che lui non trova nella vita reale di tutti i giorni.

E allora la musica diventa per Schubert strumento e diario dell’anima in cui riversare le proprie frustrazioni, le ambizioni represse, i sogni e la felicità agognata e mai realizzata.

GRANDI MELODIE

È una musica che cattura al primo ascolto per la bellezza delle incantevoli melodie che Schubert sa far apparire all’improvviso. E ce le porge su un tappeto sonoro fatto di trine e ricami armonici non meno belli e affascinanti. Temi che si rincorrono con arpeggi e figurazioni sempre mutevoli e cangianti e con pulsazioni ritmiche sorprendenti.

ASCOLTO emozionante

Gli 8 Improvvisi ascoltati in successione regalano emozioni difficilmente traducibili a parole.

Il fascino e il mistero della musica del resto è tutto in questa intraducibilità. I suoni, le frasi musicali, le armonie che sorreggono splendide melodie, il ritmo stesso comunicano altro dall’esprimibile a parole.

Tutti i tentativi (come farò nelle note di ascolto finali) che provano a descrivere ciò che le sonorità comunicano non fanno altro che prendere a prestito immagini e analogie proprie ad altre esperienze sensoriali. E allora ogni descrizione sarà sempre parziale e approssimativa. L’ascolto e le sensazioni provate rimangono l’unica e vera esperienza reale.

Il primo ciclo dell’Op.90 tocca le tonalità di Cm, Eb, Gb e Ab.

Il secondo ciclo dell’Op.142 tocca le tonalità di Fm nel primo e ultimo Improvviso e quelle di Ab e Bb nel secondo e terzo.

Sono tutti incantevoli e ognuno nell’ascoltarli e riascoltarli preferirà alcuni rispetto ad altri.

Come ad es. il n.3 in Gb dell’Op.90 o il n.2 in Ab e n.3 in Bb dell’Op.142, tutti celebri e famosi.

L’ammirazione per il compositore, che ha creato (o solo scoperto?) questa musica meravigliosa, si unisce a quella per l’interprete che ce la restituisce in forma smagliante.

Buon ascolto.

P.S.

Se la giornata non ha girato come avreste voluto, mettete sul piatto gli Improvvisi di Schubert e vi riconcilierete con il mondo.

*NOTE DI ASCOLTO – Op.90

Il n.1 dell’Op.90, Allegro molto moderato, in tonalità di Do minore (Cm), è forse quello più drammatico. Capolavoro assoluto intriso di profonda desolazione con un ardente desiderio di pace e serenità.

Inizia con due ottave di Sol in maniera ambigua e senza riferimenti tonali, tanto da sembrare la fine di qualcosa, ciò che resta di una conclusione. Poi come fosse un ricordo o un sogno compare una marcia. Prima senza accompagnamento e poi ripetuta finalmente con l’affermazione della Tonica di Do minore a definirne la tonalità.

Dopo alcune variazioni compare un altro tema ricavato dal tema precedente della marcia, seguito da altre variazioni con arpeggi bellissimi. Alla fine dei quali compare una melodia dolcissima e struggente, quasi una preghiera rivolta al cielo.

Tutto il materiale sonoro viene ripetuto con la marcia sempre più marcata e staccata ad accentuarne l’aspetto drammatico, seguita poi da altre bellissime variazioni con arpeggi. Al termine delle quali ricompare l’incantevole melodia prima ascoltata.

Dopo ulteriori passaggi e un’ampia coda, il brano termina modulando dolcemente nella luminosa tonalità di Do maggiore, quasi un desiderio insopprimibile al riposo e alla pace interiore.

Il n.2, Allegro, in tonalità di Mi bemolle maggiore (Eb), inizia con scale cromatiche ascendenti e discendenti piene di grazia e d’innocenza. Sembra di assistere al libero volteggiare di una libellula o di un piccolo uccello sopra fiori profumati.

È una sorta di “Studio” alato in tempo ternario, di scrittura virtuosistica e ardita che prefigura le più geniali figurazioni del tardo Chopin.

Nella parte mediana in Si minore (Bm) riaffiorano però meditazioni improntate a mestizia e scoramento, subito allontanate dal ripresentarsi dei voli pindarici iniziali. Come a voler riaffermare il forte desiderio di libertà e felicità.

Subito frustrato però dalla conclusione inattesa e sorprendente in tonalità di Mi bemolle minore, quasi fosse la dimostrazione dell’autoconsapevolezza, da parte dell’autore, dell’impossibilità che il desiderio possa essere esaudito.

Il n.3, Andante mosso, in Sol bemolle maggiore (Gb), è una vera e propria Serenata percorsa da una delle più belle e celestiali melodie Schubertiane, e per questo uno dei più amati e certamente il più celebre della raccolta.

Sopra un meraviglioso ricamo di arpeggi della mano sinistra si alza il canto ineffabile e struggente, intimo e lirico, della mano destra. La melodia si sviluppa senza ripetizioni, attraversando anche la sezione mediana, piena di ombre e modulazioni, prima di ritornare al suo flusso rilassato e sognante nella parte finale.

Nonostante la tonalità maggiore, che dovrebbe risultare brillante e solare, il brano è intriso di profonda tristezza e malinconia, di tenero e commosso rimpianto.

Da questo Improvviso Mendelssohn, da lì a qualche anno, trarrà ispirazione per le sue Romanze senza parole.

Il n.4, Allegretto, in La bemolle maggiore (Ab), è in tempo ternario e inizia con un primo Tema caratterizzato da due elementi contrapposti: una serie di accordi arpeggiati su cui si innesta un corale.

Dopo un secondo Tema appena accennato si passa alla parte centrale, al Trio in in Do diesis minore (C#m), dove compare una melodia appassionata e drammatica, quasi beethoveniana, resa emotivamente più intensa dalla ribattitura di potenti accordi insistiti. Segue la riesposizione della parte iniziale con toni pensosi ed elegiaci.

*NOTE DI ASCOLTO – Op.142

Il n.1, Allegro moderato, in Fa minore (Fm) è il più ampio e articolato e forse anche il più ispirato di questi quattro improvvisi. È in forma di rondò, cioè in forma ternaria ampliata (A-B-A-B-A).

Il nucleo poetico dell’intera composizione è nella parte centrale dove la melodia è sognante e lirica e il tempo sembra che sia sospeso. A questa si alternano episodi caratterizzati da “un’ornamentazione leggera e fantastica” come li ebbe a definire Schumann.

Il n.2, Allegretto, in La bemolle maggiore (Ab), uno dei più popolari degli 8 Improvvisi è un piccolo Minuetto con una melodia cantabile in tempo di valzer che richiama l’Improvviso n.4 Op.90.

La sezione del Trio in re bemolle maggiore è caratterizzata poi da arpeggi e modulazioni toccanti e commoventi. Ritorna alla fine la melodia iniziale in forma intimistica e contemplativa.

Il n.3 Andante, in Si bemolle maggiore (Bb), anch’esso molto noto, è formalmente un Tema con 5 Variazioni, secondo il modello classico utilizzato e sviluppato da Beethoven.

Il Tema molto cantabile che Schubert utilizza è quello già usato nel Quartetto in La minore e nelle musiche di scena per Rosemunde.

Le 5 variazioni si susseguono in maniera giocosa e divertita, ora privilegiando il virtuosismo, ora la dolce cantabilità, ora le ornamentazioni fatte di scale e arpeggi.

Alla fine ritorna in pianissimo il tema originale in forma pacata e solenne.

Dispiace il giudizio critico e severo di Schumann su questo Improvviso, una presa di posizione troppo rigida non condivisa da critici autorevoli come Alfred Einstein e da numerosi altri.

Il n. 4, Allegro scherzando, in Fa minore (Fm) è come il primo in forma di rondò.

Altamente virtuosistico assomiglia un po’ ad un Capriccio, ma da questo si distanzia per l’assenza di estrosità e la presenza invece di una sottile malinconia e una pacato inquietudine, tuttavia piene di fascino.

Per approfondire l’ascolto

1) Franz Schubert

The complete Impromptus; Moments Musicaux
Alfred Brendel, pianoforte (Philips Classics, disponibile anche su Apple Music e Google Play)

2) Franz Schubert
Piano Works 1822-1828
Alfred Brendel, pianoforte (Decca, disponibile anche su Apple Music e Google Play)

P.S.

Per i riferimenti alle Tonalità e alla loro denominazione anglosassone vedi quanto da me riportato nell’articolo sul Circolo delle Quinte.

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Brad Mehldau

Brad Mehldau

BRAD MEHLDAU SONGS – THE ART OF THE TRIO – VOL. III – 1988

Brad Mehldau -pianoforte / Larry Grenadier – contrabbasso / Jorge Rossy – batteria

di Sante Fernando Tacca

La scelta di una prima proposta è sempre impegnativa e foriera di mille dubbi. Il criterio che ho deciso di seguire tuttavia non è quello di essere gradito ai miei pochi lettori ma il desiderio di suscitare curiosità e interesse verso artisti e opere che magari ad un primo ascolto possono anche risultare ostici e di non facile lettura.

Non so perché ma il primo artista a cui ho pensato è stato Brad Mehldau, uno tra i più grandi pianisti jazz al mondo, che per formazione classica e temperamento è stato additato come l’erede di Bill Evans (cosa che lo infastidisce), e che per lirismo viene anche accostato a Keith Jarrett, altro mostro sacro.

Elenco brani
Elenco brani

Qui parliamo soprattutto di Trio Jazz, e cioè della classica formazione pianoforte-contrabbasso-batteria con cui si sono cimentati innumerevoli artisti, i cui massimi risultati estetici e formali si sono raggiunti appunto con il Trio per eccellenza che ha rappresentato per anni il modello formale di riferimento per tutti i successivi Trii che si sono succeduti: quello appunto di Bill Evans con Scott LaFaro al contrabbasso e Paul Motian alla batteria (la memorabile serie di concerti al Village Vanguard di New York nel 1961 immortalata nei due album Waltz for DebbySunday at the Village Vanguard, rappresentano ancora oggi una pietra miliare).

Tutta la discografia di Mehldau è degna di nota, avrei potuto scegliere qualsiasi album, ma la mia scelta istintiva è caduta su un album pubblicato nel 1998, il Vol. 3 della sua pentalogia “The Art Of The Trio”.

La formazione

La formazione è quella che per anni lo accompagnerà con Larry Grenadier al contrabbasso e Jorge Rossy alla batteria (nel 2005 Rossy verrà rimpiazzato da Jeff Ballard).

Si tratta di un album intimista e lirico, dalle atmosfere crepuscolari e sognanti che a partire dalle Songs che prende a prestito dal pop, dai grandi standards o dai brani che lui stesso compone, gli consente di poter dispiegare quella che secondo me è la sua caratteristica principale: saper esporre la melodia con una tale maestria e maturità artistica da rivestirla di invenzioni improvvisative armoniche e ritmiche fatte di un continuo contrappunto delle due mani, totalmente e miracolosamente indipendenti l’una dall’altra, sia da un punto di vista melodico che ritmico. Ad un primo ascolto ciò può non apparire perché la bellezza espositiva apparentemente semplice può mascherare quello che in realtà dopo ripetuti ascolti risulta emergere in tutta la sua complessità e raffinatezza.

Ed è per questo che Song appartiene agli album che acquistano sapore ad ogni successivo ascolto, rivelando di sé (come direbbe Paolo Conte con la sua “Milonga”) molto più, molto più di quanto apparisse.

Cinque brani sono di Mehldau, tre sono standards e due sono “chicche” riprese dal pop: la bellissima River Man di Nick Drake e Exit Music (For a Film) dei Radiohead.

Brani magnifici

Tutti i brani sono magnifici a partire dal Song-Song iniziale che da cupo e malinconico evolve poi in sonorità più chiare ed espansive, segnato per tutta la sua durata da un andamento swingante elegante e raffinato e da in interplay tra i musicisti veramente intrigante. Segue poi Unrequited, un brano lirico e virtuosistico al tempo stesso, dove Larry Grenadier si ritaglia un assolo al contrabbaso di pregevole fattura e dove Mehldau a circa trequarti del brano improvvisa in maniera strepitosa facendo compiere alle sue mani indipendenti quel miracoloso contrappunto che prima veniva ricordato.

A seguire un brano di Richard Rodgers e Lorenz Hart Bewitched, Bothered and Bewildered, standard ricercato dai jazzisti per la sua bellezza melodica e armonica, splendidamento reso qui da Mehldau con il suo Trio in una magnifica interpretazione con il contrabbasso a fare da contrappunto e i piatti e le spazzole della batteria a cesellare i vari momenti della melodia.

Da ricordare l’indimenticabile e ineguagliata versione che nel ’56 Ella Fitzgerald fece di questo brano, con Paul Smith al piano, Barney Kessel alla chitarra, Joe Mondragon al contrabbasso e Alvin Stoller alla batteria, versione che è vietato non conoscere.

A seguire l’incipit inconfondibile di Exit Music (For a Film) dei Radiohead che evidentemente piacciono molto al nostro pianista dato che anche in altri album sono presenti brani tratti dal loro repertorio. Mehldau dopo una fedele esposizione della melodia si avventura in improvvisazioni molto belle e suggestive di gran classe.

Retro
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La canzone dei Radiohead

La canzone dei Radiohead compare nell’album pluripremiato del 1997 OK Computer  ma fu scritta specificatamente per i titoli di coda del film del 1996 diretto da Baz Luhrmann  William Shakespeare’s Romeo+Juliet, rielaborazione in chiave post-moderna della celebre tragedia. Questo brano ha sempre avuto su di me l’effetto del dejà-vu, nel senso che l’attacco iniziale utilizza una cellula tematica che a me ricorda l’incipit di una famosa canzone di Antonio Carlos Jobim Insensatez, la quale a sua volta mi ha sempre ricordato l’incipit del Preludio n.4 in Mi minore di Chopin (provare ad accostare i brani in sequenza rovesciata per credere).

Ma questo in musica si verifica spesso: utilizzare più o meno inconsapevolmente una cellula tematica molto caratterizzata, melodicamente o ritmicamente, composta di poche note, per iniziare una melodia che poi evolve dopo poche battute verso il proprio autonomo e originale sviluppo, un fenomeno cioè che niente a che vedere con il plagio.

Dopo altri due brani molto belli a propria firma At Loss e Convalescent in cui viene esaltato il magnifico interplay che si instaura tra i musicisti (così come avviene nell’ultimo brano Sehnsucht), subentra la splendida ballad For All We Know canzone scritta nel ’34 da J. Fred Coots e Sam M. Lewis, interpretata e ripresa da numerosissimi artisti e musicisti, di cui a me piace ricordare la splendida versione che ne fece Nat King Cole (la cui bellezza timbrica vocale per me supera tutte le altre).

La grandezza

Qui Brad mostra tutta la sua grandezza nel trattare un bella melodia plasmandola e interpretandola in base alla propria sensibilità, rispettandone i tempi ed esaltandone le soluzioni armoniche.

A seguire un brano di Nick Drake (autore cult inglese, introverso e geniale, scomparso all’età di soli 26 anni di cui Brad è estimatore): la splendida River Man presente in Five Leaves Left del 1969.

Bellissima versione strumentale da parte del Trio di una canzone di per sé bella, intrigante e misteriosa sia per la musica che per il testo (occasione per riascoltare il bellissimo album Five Leaves Left).

Commovente versione di Young at Heart

Subito dopo una versione dolcissima e commovente di Young at Heart di Johnny Richards e Carolyn Leigh, una canzone del ’53 portata al successo da Frank Sinatra. Dopo una delicata introduzione iniziale ed esposizione della melodia in chiave quasi onirica che richiama il mondo dell’infanzia, con tanto di carillon a caratterizzarne l’atmosfera ed il mood, subentra nello sviluppo successivo un’inquietudine e un turbamento come a ricordarne la nostalgia, subito seguita nella parte finale da una ritrovata serenità espressa in toni lirici con fraseggi e sonorità che rimandano alla sua formazione classica: il brano termina in maniera incantevole quasi fosse un notturno chopiniano. A dimostrazione di cosa può diventare una semplice canzone nelle mani creative di un grande artista come Brad Meldau.

Insomma un album da ascoltare e riascoltare, capace di svelare aspetti nuovi ad ogni ascolto.

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