Un episodio
Ho transennato un corridoio nella piazzetta del campeggio e sto sistemando le luci per la sfilata di moda che si svolgerà di lì a poco. Un bambino di circa tre anni continua a passare sotto le transenne. La mamma, lì vicino, sta armeggiando con il telefono. Le dico: “Signora, tenga il suo bambino. Qui ci sono dei stativi che sorreggono i riflettori non ancora fissati: potrebbero cadergli addosso”. Mi risponde indispettita: “Ci provi lei a tenerlo se ci riesce”. Questo episodio risale a qualche anno fa ma, con infinite varianti, vedo ripetersi continuamente questo schema tra genitori e figli e rimango ogni volta sconcertato.
Non è indispensabile avere figli
Due fattori concorrono a definire questo tipo di rapporto familiare deviato tra genitori e figli. Per primo la convinzione che il no sia negativo per lo sviluppo del bambino. In secondo luogo la poca voglia di dedicare a questo attenzione, tempo ed energie. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, troppe coppie mettono al mondo figli perché questo sembra naturale, un necessario completamento della famiglia ed è voluto dalla consuetudine. I figli invece bisogna desiderarli con tutte le proprie forze ed essere disponibili, entrambi i genitori, a dedicare loro tutte le attenzioni, le energie ed il tempo necessario. Se no meglio rinunciare.
Il no ha una funzione cognitiva
Il primo fattore invece merita tutta la nostra attenzione. I bambini apprendono con un meccanismo di prova – errore: tocco la punta di una spina, mi faccio male, non lo faccio più. Nello stesso modo avviene, o dovrebbe avvenire, nel rapporto tra genitori e figli. I primi dovrebbero favorire il formarsi di questa conoscenza derivante dell’esperienza diretta. Il no quindi non ha solo una funzione educativa. Piuttosto afferisce alla sfera cognitiva. Si può affermare che senza ostacoli alla propria esperienza il bambino non configurerà correttamente i meccanismi della sua mente e si porterà appresso un deficit nella strutturazione dei suoi meccanismi mentali.
Dopo bisogna recuperare
In un supermercato, in fila alla cassa, un bambino di quattro anni piange, urla, strepita senza sosta: un capriccio terribile. I suoi genitori non sanno cosa fare: “Amore, non fare così. Ma cosa vorresti? Calmati, ti prego”. Lo guardo ed immagino di sentire i suoi pensieri con la voce di Paolo Villaggio in quel film famoso: “Fermatemi, vi prego. Mi sono infilato in un vicolo cieco e non so come uscirne senza perdere la faccia. Alla mia età è già tutto così difficile: non si può perdere anche la faccia. Sono incartato, come a scopone scientifico quando si sbagliano i conti. Anche uno scapaccione, ma fate qualcosa!”. Lì ci vuole un no: un adesso basta. Ma non solo quello: dopo bisogna recuperare. Bisogna coccolarlo e spiegargli cosa è successo, quello che non si deve fare e quello che invece va fatto. È necessario rispondere a suoi perché. Bisogna sempre rispondere ai perché dei figli. Mettendoci tutto il tempo che ci vuole e sacrificando il proprio tempo e la propria attenzione. .
Al ristorante
Sarà capitato a tutti voi, al ristorante, di essere disturbati da una miriade di bambini che corrono tra i tavoli. Oggi io, per raggiunti limiti di età come padre, vado al ristorante con il cane ed una volta un gestore mi ha confidato: meglio i cani dei bambini perché in genere sono più educati. Quando ci andavo con i miei figli piccoli, questi mai si sarebbero alzati dal tavolo prima di tutti gli altri commensali. Gli portavamo, mia moglie ed io, i loro giochi, o, più grandetti, un giornalino. E poi almeno uno dei due, a turno, passava del tempo a giocare con loro, a rispondere alle loro domande, a prestargli attenzione. Quando proprio non sopportavano più la convivialità, il papà o la mamma si alzavano e rinunciavano alle chiacchiere con gli amici per portarli fuori a giocare. Questo significa dedicare del tempo ai figli e questo si fa solo se non è un sacrificio, se con loro ci si diverte. Altrimenti: fare i figli non è obbligatorio. Il pianeta è sovrappopolato e nessuno sentirà la mancanza di figli non realmente desiderati.